Resta aggiornato clicca qui e iscriviti al canale WhatsApp di Al.Si.P.Pe
In pieno Covid si scatenò il caos a Cà del Ferro
CREMONA – «Vogliamo il tampone, fateci il tampone. Vogliamo la libertà, oggi usciamo, distruggiamo tutto. Ci fate morire, mandateci fuori in libertà. Vi ammazziamo tutti». Sgabelli spaccati, finestre divelte. Pezzi e sbarre lanciati contro gli agenti, sedie in plastica e coperte date alle fiamme, focolai, un box sfondato, vetri in mille pezzi, telecamere rotte, plafoniere distrutte. Il buio e la coltre di fumo. Due agenti intossicati, un altro colpito al naso con un pugno.
Sono le istantanee della rivolta esplosa a Cà del Ferro l’8 marzo del 2020, in piena pandemia Covid, mentre il lockdown chiudeva l’Italia e decine di carceri italiane furono devastate dalle sommosse. A Cremona, quindici imputati, a vario titolo, per radunata sediziosa, violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Oggi il pm onorario, Silvia Manfredi, ha chiesto per cinque detenuti la condanna a 2 anni, per altri sei la condanna a 1 anno e 6 mesi, per altri quattro l’assoluzione. Oggi sono cominciate le arringhe. Il 19 marzo prossimo parleranno gli avvocati Paolo Brambilla, Corrado Locatelli e Gianluca Pasquali. Sarà il giorno della sentenza.
Il pm ha ripercorso la notte della rivolta, scoppiata nelle sezioni A, C, D per la «falsa notizia di un detenuto e di due agenti positivi al Covid». Una «atmosfera apocalittica» per dirla con uno degli agenti della polizia penitenziaria intervenuti. «C’era acqua che colava da tutte le parti, fumo, colleghi che cercavano di entrare nella sezione C dove i detenuti avevano lanciato suppellettili e si erano barricati all’interno della sezione. Cercavano di guadagnarsi strada attraverso un box di vigilanza collegato con la scala. Minacciavano di distruggere tutto». E tra i detenuti, «il più facinoroso era uno con la maglietta tipo Sandokan». Quella notte di rivolta, gli agenti fecero su e giù per sgomberare le sezioni invase dal fumo. Lo era anche la E, al quarto piano. «Avevamo fatto defluire i detenuti della sezione E lungo le scale fino alla zona cortili – aveva raccontato un altro agente -. Eravamo tornati indietro per chiudere il cancello, quando un detenuto ci è venuto incontro. Si è tolto la maglietta e ha cercato lo scontro fisico con noi che eravamo spalle al muro. Ha sferrato un pugno a un collega, mi ha strappato lo sfollagente». Un altro agente: «Uno dei detenuti incitava a creare disordini e ad appiccare il fuoco a cartoni, ceste e materassi. Alla fine, tutto il corridoio della sezione C era completamente bruciato». L’agente si intossicò e fu portato al Pronto soccorso.
«Non era una mera resistenza passiva», ha detto il pm, che ha parlato di «comportamenti provocatori attivi». Uno dei difensori si è rifatto alla «causa giustificativa: lo stato di necessità», inquadrando il contesto della rivolta. «I fatti son avvenuti ai primi di marzo. Nessuno sapeva nulla sul Covid; giungevano notizie di parecchie persone che, purtroppo, morivano qua e là. E allora, pensiamo ai detenuti che sentono dire che qualcuno ha il Covid, un virus letale». Per il difensore, «in quel contesto, è assolutamente giustificato il comportamento degli imputati, che sono terrorizzati. Chiedono il tampone, addirittura la libertà. C’è il rischio di morire. Chiedono la libertà, quantomeno un tampone». I detenuti «erano convinti di essere in pericolo di vita, magari non lo erano, ma così credevano». E ancora: «Il comportamento posto in essere dev’essere proporzionato al pericolo: il fatto di aver manifestato il proprio disagio, rompendo lampioni, urlando e scaraventando sedie, a fronte del pericolo di perdere la vita. Il tampone li avrebbe potuti tranquillizzare».(laprovinciacr)
Resta aggiornato clicca qui e iscriviti al canale WhatsApp di Al.Si.P.Pe